Rifiuto di conferire
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Qualche giorno fa ho ricevuto la visita di una dipendente dell’Hera – azienda semimunicipale bolognese che, da buona tutrice del focolare, si occupa pure di portare fuori la spazzatura. Girava per gli appartamenti della Libera Repubblica di Mazzini per consegnarci a mano la preziosissima «Carta Smeraldo», tessera magnetica (in due copie) della quale ci si dovrà a breve munire per aprire il magico monnezzaio. Si potrà fare più di un «conferimento» al giorno rassicurava la ragazza e, per i primi due anni, grazie alla generosità dei nostri amministratori, non si pagherà la tassa «a conferimento», ma si potrà «conferire» quanto si vuole: urrà! pizza, birra e conferimento libero!
Tutto ciò è stato molto distinto e istruttivo. Io sospetto anche che la lavoratrice avesse un qualche dottorato serio, magari in biologia molecolare, perché il «che cavolo sto a parlare io con questo scemo qua ma lo devo fare perché al momento non trovo altro» traspirava ad ogni sua risposta. Alla fine dello scambio mi sono reso conto che avevamo parlato per dieci minuti senza nominare mai la parola «spazzatura», sostituita, è qualche anno, da queste strane parafrasi naftaliniche: «conferire», «conferimento», «recarsi a conferire», con qualche «apposito» incastrato qua e là che fa sempre tutto molto a norma.
Ho un dottorato in biologia molecolare e devo spiegare a questo scemo in pigiama come conferire…¹
Ma che cosa diavolo significa «conferire» la spazzatura?
- Sbucherellare una busta di immondizia con un cacciavite in compagnia di sadici sodali?
- Accostarsi con fare circospetto a un cassonetto per condividere con lui importanti informazioni sul da farsi?
- Appuntare una buccia di banana sul petto del cittadino-nettoyeur più virtuoso dell’anno?
Il Tricinìno onláinico avvisa che il significato di ‘portare insieme cose’/‘contribuire all’ammucchiata o alle tasse’ è o specifico o in disuso, e, come nei casi critici, mette di mezzo gli avvocati: se non si conferisce, tutti insieme, il grano o i dinari, si conferisce allora con il ministro o il legale, al quale, se è di fiducia, si conferisce pure un incarico, sempre se abbia già conferito a una conferenza sul tema, guarda un po’, dell’inquinamento, che certo non conferisce vigore al patrimonio genetico delle future generazioni, che, se dovessero conferire due codici, non avrebbero nemmeno la forza di tirarli fuori dagli scaffali (ma quest’ultimo omaggio al lessico filologico lo direi un arcaismo pressoché spacciato).
«In silvas confugiunt eodemque sua conferunt»…
— Bravo Cesare! Pure che è in guerra si ricorda sempre di conferire!
Ma allora cosa c’entra conferire la spazzatura? Atto difficilmente sociale, anzi generalmente piuttosto riservato, per nulla premiante o rinvigorente e nel cui svolgimento certo non si affiderebbero particolari e/o rilevanti incarichi?
Per trovare un significato di conferire nel senso di portare q.cuno o q.cosa (qui spererei solo qualcosa) devo aprire il dizionario di latino, anche se dubito che i redattori del Nuovo Codice della Monnezza possano aver tratto dai diari di Cesare l’esempio lessicale utile a rinominare l’atto di andare a gettare la spazzatura «il conferimento». Più probabile che, come in molti altri casi, l’istitutore abbia voluto, con questa innovazione dal sapore tecnico-giuridico, impressionare un poco il cittadino, ostentando arcano sapere e suggerendogli nel contempo che da qui in poi termini come «buttare» – con quel butta un po’ buttano che rende subito l’operazione esecrabile – e «spazzatura» – con tutte quelle zeta malsane – sia meglio non utilizzarli.
Gettare o buttare la spazzatura comportano forse il rischio che l’azione sia concepita come volgare, e che l’attenzione del cittadino non si concentri abbastanza sulla natura e sul destino di questi scarti e sui migliori modi per ben confezionarli. Il cittadino va educato. E, come in ogni progetto maldestramente distopico, l’educazione a buon mercato comincia dal normare socialmente le parole, orientandone la scelta e la semantizzazione, cioè il posizionamento psicologico di chi le pronuncia o riceve nel campo dei possibili significati.
«Se pronunci le parole diverse, hai i pensieri diversi» (Joe Coforza²)
L’ipotesi di fondo di tutte queste piccole riforme del linguaggio a umma-umma è che modificando l’«etichetta» si produca, Joe Coforza, un cambiamento nella disposizione mentale del parlante, e che si associno, o non si associno più – prima, dopo e durante l’emissione vocale di una parola –, specifiche emozioni, concetti e giudizi in chi la pronuncia. Sarebbe questo, in fondo, l’irriducibile pensiero magico alla base di ogni atto di nominazione, ovvero l’atto del dare nomi per cambiare la materia del mondo a partire dai cervelli che la pensano. Perché il linguaggio è magia, e la lotta per dominarlo è una lotta tra astuti stregoni.
Interessante notare poi come, con una rimozione rivelatrice, il verbo «conferire» in questo nuovo contesto d’uso perda subito il suo oggetto e si presenti preferibilmente in veste intransitiva. È ovvio infatti che se ci si appesantisce la favella sostituendo un comodo «gettare» o il semplice «portare» con il tecnico «conferire» non gli si può attaccare poi, come se nulla fosse, un «la spazzatura» come complemento oggetto. Sarebbe uno spreco di altisonanza, un aborto di elevazione. Grazie all’intransitivizzazione del verbo conferire, all’occultamento del suo oggetto, la spazzatura come categoria unitaria diventa innominabile, e un oggetto indifferenziato – il rusco, la monnezza, il pattume – esplode in una apertura di transitività specifiche e ben individuabili (specialmente con l’aiuto di una tessera magnetica): la carta, la plastica, l’alluminio, il vetro, l’«organico», ma anche i farmaci, i RAAEE, le pile, e i baciapile. Il rapporto con il «prodotto», astratto e simbolico nella sintesi fascinosa offerta dal bene di consumo, ritorna analitico e materiale.
Vorrei obiettare che il tràdito «spazzatura» nulla ha necessariamente a che vedere con fetori, oli esausti e deiezioni, trattandosi, assai semplicemente dell’«operazione dello spazzare», ma ciò conta poco perché il suo significato sociale percepito, la sua ecosemantica, non è certo quello grammaticale o etimologico. Ciò che la mente della persona comune, impressionata dalla cronaca, associa oggi al termine «spazzatura» è, ci scommetto, puzza di pesce marcio misto a plasticazza chimica arsa da canicola agostana di cui bisogna al più presto liberarsi, anche lanciandola da un’auto in corsa se è dell’uopo.
L’ecosemantica è tutto quello che ti rimane in testa dopo che senti pronunciare una parola
L’etimologia, per chi non la conosce, non ha mai aiutato a formare, o riformare, il significato delle parole. E dal momento che nessuno la conosce, o se la conosce la usa perlopiù per menar vanto, non meraviglia che al riformista linguistico venga facile andare a ripescare vecchi termini un poco astrusi per incantare la forgiatura di nuove parole o modificare il significato di quelle esistenti. Penso al funereo «obliterare», sostituito con una certa frequenza dal quirinalizio «vidimare» (quant’è bello), in luogo del più semplice, e direttamente intuibile, «timbrare». In questo caso il coup linguistico vorrebbe conferire (!) al termine una certa aura di aula di giustizia, un sapore di proceduralismo austero, rigoroso, vecchio stampo. Il tutto, io credo, con l’idea recondita che le persone si spaventino un poco a leggere ’sti paroloni e timbrino quel cacchio di biglietto.
— Padre, mi perdoni perché ho molto consumato…
— Cinque Ave Maria e otto conferimenti figliuolo
Abbiamo così da un lato una società il cui funzionamento è interamente basato sulla produzione del maggior numero di scambi commerciali e di oggetti di consumo (in PIL we trust), sulla loro vita il più possibile breve, e sulla martellante necessità, instillata per via di propaganda dai più acuti linguisti sociali – i pubblicitari, di acquistare più merci possibili nel minor tempo possibile, e, dall’altro, una salma istituzionale a vocazione paternalistica e colpevolizzante che invita, dopo l’acquisto, alla frugalità monastica e all’analisi biochimica dei residui del consumo, ma solo dopo l’acquisto.
— Ma come facciamo a convincerli a lavorare a gratis per noi?
— Digli che devono salvare il pianeta, come Iron Man…
Qualcuno, chi sa, potrebbe pensare che al riformatore istituzionale faccia un gran comodo che i costi sociali dello smaltimento degli scarti delle merci vengano scaricati sui cittadini, e che questi gli pre-lavorino i materiali differenziandoli di modo che la sua municipalizzata, invece di assumere dipendenti o investire in macchinari, possa utilizzare la loro forza-lavoro a costo zero, e che l’«obbligo di conferire» suoni assai meno come l’atto virtuoso di un’umanità responsabile e assai più come una proverbiale fregatura nel quadro attuale di delega al privato di funzioni tradizionalmente a carico dello Stato, pur sempre e nondimeno assai esigente quanto al pagamento dei propri servigi, ma questi, si dirà, sono solo i pensieri maligni di un vecchio sporcaccione.
GG.
¹ Pensiero ricostruito/speculazione soggettiva dello scrivente.
² Joe Coforza (1936-1999). Teorico di uno stretto determinismo dei fenomeni fisici e psichici, morto in questo mondo in una scatola di Schrödinger nel 1999 in seguito al tentativo di dimostrare a sé stesso la verità scientifica della teoria everettiana dei «molti mondi» per mezzo dell’esperimento noto come «suicidio quantistico».