Butes o l’anti-Ulisse
Di ritorno dalla conquista del Vello d’oro, che altro non sarebbe che un pelle di pecoro assai prezioso e magico, la nave antica di Giasone, con tutti i suoi Argonauti, passò il capo tempestivo delle teribbili Sirene. Di aspetto assai diverso da come ce le raccontiamo oggigiorno, le Sirene avevano giusta nomea di divoratrici d’uomini, suadenti cantrìci dei gorghi ignoti del molle psiche umano.
Tutti gli scaltri eroi seppero inventarsi un trick perché quel canto non li sprofondasse, dopo l’estasi del rapimento, nella bruttura della morte: Orfeo ci dava di lira, e combatté il canto del caos con la pulsione apollinea del canone, come in un cartone giapponese di potenti contromosse; Ulisse, forte di soffiate, se la giocò con corde e funi: ai suoi compagni cerò gli origli, ma lui, protervo, volle ascoltare, al palo dimenandosi in smorfie tragiche e grattando colle punte dei piedi il duro legno della nave; Butes, il buon figlio di Teleonte, peccò di incontinenza, e alle prime curve del settico richiamo, carcò i polpacci sul bordo della barca e senza troppo cogitare si tuffò – abbandonando uomini e gloria alla loro conchiglia.
Pare poi che lo soccorse Afrodite, in happy ending, sottraendolo a morte certa, e che, tiratolo fuor dalle acque, annennòsselo sul petto profumato spupazzandoselo come suo amante.
Il finale indurrebbe al sospetto che in fondo in fondo, come nei filmetti americani, al pazzo dotato di fede verrà dato, ex machina, un premio ragguardevole, quale che sia la rovinosa prova o l’estremo periglio. Ma a me questo finale non convinse, o meglio, del mitico motore a due tempi, io ne vissi sempre e solo uno. E tanto, come emblema, me lo feci bastare.
G·
La storia di Butes è narrata nei versi 891-919 del Quarto libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, nume alessandrino, egiziano, primo dei delusi di maestro e di natura cedevole a un laborioso ritiro. Qui nella prima traduzione italiana (1791, vv. 1372-1409, con glosse fantasma).
Quindi la nave un temperato vento
spignendo, guari non andò, che a vista
della bella, e fiorita Isola furo,
u’ l’argute Sirene, d’Achelóo
figlie, molcendo con soavi canti
fan di chi getta ivi le funi scempio.
Queste un dì già Terpsicore la vaga,
e del bel numer’ una delle Muse,
con Acheloo fatto comune il letto ,
al mondo diede: ed una volta insieme
cantando ad allettar stetter l’illustre
di Cerere figliuola ancor non tocca;
fatte poscia ad augei simili in parte,
ed a vergini in parte compariro:
e là del porto sempre alla veletta
stando a osservar, assai sovvente a molti
la dolce di tornar strada levaro;
ivi da tabe macerati e spenti.
Or queste ai Minj incominciar già franche
dalle bocche a mandar soave voce,
e dalla nave essi eran già le funi
ai lidi per gittar; se il Trace Orfeo
d’Eagro figlio, la Bistonia cetera
stesa nelle sue man, di canto equabile
a modular concento in note celeri
non si metteva, e insiem le corde a battere,
onde del suon gli orecchi risuonassero;
di quelle il canto dalla cetra oppresso.
Così la nave Zefiro portava,
e la sonora insieme onda che a poppa
con forza la spignea; mentre confusa
le Sirene a mandar seguian loro voce.
Ma ad onta pur di ciò, di Teleonte
il buon figliuolo, fra i compagni il solo,
corse al periglio innanti: in mar gittossi
dal liscio banco Bute, dalla voce
di quelle arguta riscaldato l’alma:
e già nuotava pe’ cerulei flutti